La notte degli Oscar, quest’anno, porta la folata di un ricordo speciale, perché non tutti gli istanti che viviamo sono uguali.
La scorsa estate ero lì, con mio figlio. Al Dolby Theatre, il teatro dove vengono assegnati gli Oscar.
Se alzi gli occhi, non puoi non vedere l’infilata di grandi riquadri, uno per ogni anno, con il titolo del film vincitore.
La cosa che non ti aspetti è vedere dei riquadri vuoti: portano solo la dicitura dell’anno, per ora. Sono riquadri riservati ai futuri vincitori degli anni a venire. Arrivano fino al 2070 e oltre.
E così, quel giorno…
Li guardo ed è impossibile non perdersi.
Sono riquadri che non vedrò mai riempirsi.
Guardo poco più sotto, e vedo un diciottenne scattare foto col telefonino.
Continuo a perdermi: me lo immagino oramai sessantenne e passa, tornare lì e leggere il titolo di quel film, nel 2070.
E me lo immagino per un attimo, fosse solo un istante, tornare con la mente e il cuore a quel lontano 2024.
Me lo immagino provare a risentire la voce del padre che lo richiamava da quegli scalini.
Me lo immagino cercare con lo sguardo l’angolo dove c’era la creperia nella quale per tre giorni costrinse suo padre ad aspettare che aprisse.
Me lo immagino insieme ad altri, eppure per quel solo, lunghissimo istante, isolarsi e cercare di ritrovarmi e ritrovarci: le parole intrise di sogni di un ragazzo e quelle ragionanti da padre.
Me lo immagino sorridermi al ricordo di quella lontana richiesta.
“Leonardo, me lo prometti che nel 2070 vieni a leggere il nome del film vincitore? E poi passi a dirmelo ovunque sarò?”. Così in quel lontano 2024 il padre apostrofò quel ragazzo, dopo averlo richiamato da quella scalinata.
Ci vuole poco, per perdersi d’immenso.
Quella notte degli oscar del 2070. Noi due…
